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'Le città di pianura' di Sossai: la terra veneta e i suoi uomini

21-05-2025 Carmen Diotaiuti Reading time: 7 minutes

CANNES - Un road movie incalzante e alcolico che segue il ritmo della commedia all’italiana mentre attraversa i paesaggi della sterminata pianura veneta dei giorni nostri, raccontando di come gli uomini che la abitano ne siano espressione. Le città di pianura, opera seconda di Francesco Sossai è in concorso a Un Certain Regard e nelle sale prossimamente con Lucky Red. Una coproduzione Italia-Germania, prodotto da Vivo Film, Maze Pictures, Rai Cinema, con il contributo del Ministero della Cultura, con il sostegno inoltre di Eurimages, Filmförderungsanstalt, Die Beauftragte der Bundesregierung für Kultur und Medien. Il film è stato finanziato dal Bando Regione del Veneto PR FESR 2021-2027 nella seconda finestra del 2023.

Una storia di amicizia e crescita sentimentale - interpretata da Filippo Scotti, Sergio Romano e Pierpaolo Capovilla - che racconta dell’incontro tra un giovane e timido studente di architettura e due cinquantenni un po’ balordi con l’ossessione di andare in giro a bere "l’ultimo" bicchiere. "La nostra è una vita fondata sul consumo, sottolinea Pierpaolo Capovilla, e l’unica vera libertà che ci è rimasta è quella di consumare. In questo senso, l’alcol è una forma particolare di consumo, perché non ti basta mai, ne vuoi sempre un po’ di più, e poi ancora un po’, senza soluzione di continuità.  E allora l’ultima bevuta cercata è l’assenza di senso nelle cose e delle cose, in un film che interroga lo spettatore, non dà risposte ma chiede: “Che cosa stai facendo?”, “Che cosa vuoi?”, “Che cosa vuoi davvero dalla tua vita?”

Tra i personaggi che i protagonisti incontrano nel loro girovagare, un operaio che porta lo stesso cognome del regista, di origini bellunesi, che inserisce una piccola componente autobiografica come testimonianza dell'autenticità dei personaggi narrati: 

“Il film prende ispirazione da ciò che conosco, dalla mia terra e dalle persone che ho frequentato" ha detto il regista, che era già stato a Cannes, alla Quinzaine, con il corto Il compleanno di Enrico ( 2023).  "Trovavo divertente utilizzare il mio cognome, tipico delle mie zone, dentro un racconto collettivo. È un modo per mettermi in prima linea e suggerire che quel mondo esiste davvero, che non è una finzione”.

Protagonista la terra veneta, un mondo rurale perduto 

Una storia locale e universale insieme, le cui riprese si sono svolte in varie tappe nella pianura veneta, tra le province di Belluno e Treviso, a Sedico e nel FeltrinoPadova e Chioggia e anche Venezia. Luoghi che il regista preferisce definire terra piuttosto che territorio, termine, quest'ultimo, che ritiene abusato e legato più al concetto di vendita che a quello di appartenenza. Uno spostamento semantico che la dice lunga sul fatto che del Veneto rurale non sia rimasto praticamente nulla, sottolinea: “Quella che si respira nelle campagne è un’aria da solitudine urbana. Questa è la sensazione principale che ho voluto restituire nel film; quella di una campagna che non è più campagna ma che non è ancora diventata città. Indagare l’anima di una regione diventata un ricchissimo cimitero; qualsiasi cosa non abbia a che fare con la merce sta scomparendo, gli ecosistemi sono inquinati, le vecchie abitazioni abbandonate o distrutte a vantaggio di un’edilizia residenziale senza più carattere. La civiltà contadina apparteneva a un luogo, era un’emanazione stessa della terra. Una forma di vita che ha permeato questi spazi per lunghi secoli è ormai sparita. Si può dire che abbia girato il film tra le rovine di quel Veneto”.

Quando parla del suo lungo lavoro fatto sui luoghi, Sossai si paragona a un fotografo, che scatta mille foto e poi ne seleziona, magari, solo dieci. “Ho lavorato tanti anni in giro per il Veneto e ho scritto molte scene ascoltando le persone che incontravo dappertutto, nei bar, sui mezzi. Poi, proprio come fa un fotografo, ho isolato alcuni luoghi che mi interessavano particolarmente e che messi insieme potessero dare un’idea della complessità di questo posto”. Una diversità di luoghi cercata per non dare un giudizio, per non chiudersi e limitarsi nelle categorie del “tutto brutto” o “tutto bello”, ma restituire un’idea più complessa della sua terra.

Le riprese al memoriale Brion, luogo da abitare 

Girata presso il memoriale Brion nel cimitero di San Vito (TV), bene FAI già location della seconda parte del kolossal USA Dune di Denis Villeneuve, la scena che chiude il film. Un luogo che si concede allo sguardo dello spettatore come un momento di pausa e riflessione che arriva dopo i rapidi spostamenti di luogo che si susseguono fino a quel momento nella narrazione. Un memoriale che è anche luogo da scoprire e abitare:

“Nel momento in cui entriamo a Brion, porto anche lo spettatore dentro quel luogo, come in una vera e propria visita che accade all’interno del film. In un’opera dove tutto è in movimento, dove si passa in maniera molto frenetica da un luogo all’altro, mi sembrava fondamentale far provare allo spettatore l’esperienza concreta dell’essere lì. Brion è un luogo che considero molto importante perché, secondo me, è una mappa. Offrire al pubblico un momento per entrare in uno spazio così significativo può essere un’esperienza  interessante, soprattutto in un film dove, molto spesso, la drammaturgia costringe a seguire altri percorsi: identificarti con i personaggi, seguire l’azione, entrare nelle dinamiche emotive. Io volevo anche altro: volevo che ci fosse la possibilità di abitare davvero un luogo; il quale alla fine, paradossalmente, pur essendo una tomba è lo spazio più vitale del film”.